Era il 12 dicembre 2021 quando io e Luis, il manager della riserva Pia Manzi sulle sponde del fiume Luangwa, partimmo per un’ispezione in una delle riserve private del Grande Capo, situata lungo il maestoso Lago Kariba. Questo viaggio era parte del nostro incarico: esplorare, catalogare e valutare lo stato delle sue concessioni, molte delle quali non venivano visitate da anni. Non avremmo mai immaginato quanto profonda sarebbe stata questa esperienza, tra le meraviglie naturali e le difficoltà che avremmo incontrato.
Il Lago Kariba è il più grande lago artificiale del mondo per volume, situato al confine tra Zambia e Zimbabwe. Creato tra il 1958 e il 1963 con la costruzione della diga di Kariba sul fiume Zambesi, questo bacino ha trasformato il paesaggio della regione, sommergendo intere vallate e foreste. Con una superficie di oltre 5.000 chilometri quadrati e una lunghezza di circa 223 chilometri, il lago è diventato non solo una risorsa idrica fondamentale per la produzione di energia idroelettrica, ma anche un habitat unico per molte specie di flora e fauna. Tuttavia, il suo impatto è stato ambivalente: mentre ha creato nuove opportunità economiche, ha anche causato lo spostamento di comunità locali e modificato gli ecosistemi.

Dopo una riunione con il Grande Capo nella sua lussuosa villa a Lusaka, iniziammo a organizzare il viaggio. Equipaggiammo il nostro Land Cruiser con tutto il necessario: barili d’acqua potabile, carburante, strumenti, viveri e una roulotte 4×4. Dopo circa cinque giorni di preparativi, eravamo finalmente pronti per affrontare la nostra missione.
Partimmo all’alba, sotto un cielo limpido che accompagnò il nostro lungo viaggio verso il Lago Kariba. La strada si snodava attraverso paesaggi che cambiavano gradualmente: immense savane lasciavano spazio a maestosi baobab, con i loro tronchi imponenti e affascinanti. Era una visione unica, capace di riempire l’animo di meraviglia.
Arrivammo alla riserva al crepuscolo, passando per un piccolo villaggio vicino al gate. Subito mi accorsi che mancava la luce elettrica, una realtà comune nella maggior parte dei villaggi rurali dello Zambia. Qui l’acqua viene prelevata dai pozzi, e i telefoni si caricano grazie a piccoli pannelli solari posizionati fuori dalle case fatte di terra e tetti di paglia. Questo fragile equilibrio raccontava molto della vita quotidiana della comunità, strettamente legata alla natura circostante. L’accoglienza del villaggio fu calorosa: curiosi e bambini si avvicinarono al nostro veicolo per indicarci la strada. Procedemmo su una pista sterrata fino a una vasta pianura erbosa dove montammo il campo. Con il fuoco acceso e un braai a base di carne e patate, trovammo un momento di ristoro dopo la lunga giornata.
Il giorno successivo ci spostammo in un’area elevata della riserva, vicino alle sponde del lago, dove trovammo i resti di un vecchio lodge di pietra, ormai ridotto ad un rudere. Nonostante l’abbandono, il panorama era straordinario: la vista del Lago Kariba, con i suoi alberi sommersi e la fauna che popolava le sue sponde, era di una bellezza mozzafiato.
Durante quelle due settimane di lavoro, ogni giornata era scandita da attività fondamentali per il ripristino e la catalogazione della riserva. Una delle prime sfide fu la riunione con il capo del villaggio vicino e i rappresentanti locali. Con serenità e diplomazia, spiegammo loro che, su ordine del Grande Capo, tutte le comunità avrebbero dovuto lasciare la riserva entro 30 giorni. Era un dialogo pacifico ma carico di significato, in cui cercammo di far comprendere l’importanza di ripristinare l’equilibrio tra uomo e natura. Sapevamo che non sarebbe stato facile, ma la chiarezza e il rispetto con cui affrontammo la questione ci permisero di raggiungere un accordo.
Parallelamente, iniziammo l’ispezione lungo il perimetro della vecchia fence, ormai depredata. Il caldo era torrido, con temperature che superavano i 40 gradi, e ogni passo nel bush richiedeva un grande sforzo fisico. Utilizzammo i nostri GPS per tracciare i confini della riserva e il drone per ottenere una visione dall’alto delle aree più difficili da raggiungere. La sera, tornati al campo, compilavamo relazioni dettagliate per il Grande Capo, annotando ogni osservazione: dalle condizioni del territorio alla presenza di fauna selvatica e domestica. Questi resoconti serali erano momenti di riflessione, in cui cercavamo di dare un quadro completo della situazione, accompagnati dal crepitio del fuoco e dalla quiete della notte africana.
In parallelo, organizzammo squadre di lavoro per ripulire l’airstrip, ormai invaso da alberi e arbusti. Oltre 30 ragazzi del villaggio lavorarono instancabilmente per quattro giorni, riportando l’aeroporto in condizioni operative, pronto ad accogliere voli leggeri come i Cessna. La fatica era palpabile, ma anche il senso di comunità e collaborazione che nacque durante quei giorni.

Ogni giornata portava con sé una nuova sfida, ma anche momenti di pura magia. Gli ultimi due giorni furono dedicati a un’ispezione via barca lungo le coste della riserva. Navigammo tra le foreste sommerse del lago, dove i tronchi spogli degli alberi di mopane emergevano dall’acqua come sentinelle silenziose di un tempo passato. Era uno spettacolo surreale: il cielo grigio e la pioggia leggera avvolgevano il paesaggio in una luce soffusa, mentre le acque dolci riflettevano i colori sbiaditi delle foreste sommerse.
Ogni dettaglio contribuiva a creare un’atmosfera unica. Le cime degli alberi sembravano toccare il cielo, e il lago si trasformava in un bosco incantato, un luogo dove la natura sembrava raccontare antiche storie. I suoni dei cormorani, posati sugli alberi sommersi, e i vocalizzi delle aquile pescatrici aggiungevano una colonna sonora straordinaria a questo scenario irreale. Era come entrare in un quadro vivente, dove ogni elemento aveva il suo posto perfetto.
Tuttavia, il lago portava anche tracce di una realtà più cruda. Lungo le sue coste, pescatori di frodo calavano lunghe reti, utilizzando lattine di soft drink come boe improvvisate. Questa immagine raccontava la dura lotta quotidiana delle comunità locali per la sopravvivenza, un aspetto che rendeva ancora più complesso il rapporto tra uomo e natura.
Il 25 dicembre, concludemmo le ispezioni, ripulimmo il campo e ci preparammo a partire. Tornammo a Lusaka il giorno successivo, stanchi ma arricchiti da due settimane di esperienze straordinarie. Tuttavia, quelle giornate lasciarono il segno. Poco dopo il nostro ritorno, contrassi la malaria, probabilmente a causa delle zanzare che infestavano l’area umida del lago. Fu un periodo difficile, ma grazie a un rapido intervento e alla cura con clorochina, mi ripresi.
Questa esperienza mi ha insegnato molto: sulla bellezza e la fragilità della natura e sulle difficoltà profonde che legano l’uomo al territorio. La nostra missione al Lago Kariba non è stata solo un’occasione per esplorare e catalogare, ma anche un confronto diretto con le complesse realtà dello Zambia, dove la povertà spinge le comunità a sfruttare le risorse naturali per sopravvivere. La caccia di frodo, la pesca intensiva e l’occupazione delle riserve riflettono un sistema che offre poche alternative.
Trovare un equilibrio tra la conservazione della natura e il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali è essenziale. Solo un impegno concreto e condiviso potrà proteggere questi luoghi straordinari e garantire un futuro migliore per chi li abita. Il Lago Kariba resterà un ricordo indelebile: un monito sull’urgenza di agire con consapevolezza per un mondo che merita di essere protetto.