L’esplorazione del Sioma Ngwezi

Un mese nel cuore selvaggio del Sioma

Sono in Zambia da ottobre 2021 e lavoro per un imprenditore locale, uno di quelli che conoscono davvero questa terra, che ne possiedono una parte, ma che hanno anche la responsabilità di gestirla. Il mio compito? Esplorare riserve, verificare i confini, raccogliere dati sulla fauna, documentare intrusioni illegali e valutare il potenziale turistico e conservazionistico di queste terre immense e spesso dimenticate.

Queste esplorazioni non le ho affrontate da solo. Al mio fianco c’erano il mio collega Clever, un esperto e instancabile compagno di lavoro; un ranger statale armato, assegnato per accompagnarci e guidarci sul territorio; e un giovane collaboratore che si occupava della logistica del campo, cucinava per noi, lo manteneva in ordine e sorvegliava la nostra base durante le perlustrazioni. Senza di loro, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile.

A marzo mi è stato affidato un incarico speciale: tre missioni nel cuore dell’estremo ovest dello Zambia tra uno sconosciuto parco nazionale e una concessione governativa. Siamo alla fine delle piogge, ci aspettano piste allagate, savane intrise di fango e foreste ferite dai bracconieri di legname pregiato.

Sesheke e Katima Mulilo: confini liquidi e terre di passaggio

Arriviamo da Lusaka, attraversando lo Zambia lungo la Great West Road fino a Sesheke, cittadina di confine affacciata su una sponda lussureggiante del fiume Zambesi. Di fronte a noi, oltre il ponte, c’è Katima Mulilo, la porta d’ingresso alla Namibia e alla regione Caprivi, una lingua di terra strategica e storicamente contesa.

Il Ponte di Katima Mulilo, completato nel 2004, ha cambiato il volto di questa regione. Un tempo isolata, ora è diventata crocevia di traffici, commerci e… interessi meno nobili. Ma noi non ci fermeremo qui. Ci addentreremo dove le mappe diventano ipotesi, e il terreno è ancora più affidabile delle informazioni ufficiali.

Immagine di Davide Sita

Sioma Ngwezi: l’ultimo parco dimenticato

La prima tappa ci conduce nel Sioma Ngwezi National Park, uno dei parchi più grandi del Paese — oltre 5.000 km² — e anche uno dei meno conosciuti. È situato nell’estremo occidente, in una regione che confina con l’Angola a ovest e con la Namibia a sud, attraverso il fiume Zambesi, il grande serpente d’acqua che dà vita a questa parte d’Africa.

Il parco prende il nome da un antico villaggio Lozi e da un fiume locale: “Sioma” è anche il nome di una spettacolare cascata a nord, mentre “Ngwezi” significa “pianura” nella lingua locale. La zona è parte del corridoio migratorio del KAZA (Kavango-Zambezi Transfrontier Conservation Area), il più grande progetto di conservazione transfrontaliero dell’Africa australe, che collega cinque Paesi in un’unica grande visione ecologica.

Ma qui, nel Sioma, la conservazione esiste solo sulla carta. Ed è proprio per questo che siamo qui.

Ci muoviamo tra tracciati fangosi, pianure allagate e corridoi verdi scavati da elefanti in transito. A volte restiamo bloccati nel fango per ore, a scavare con le mani nell’acqua fino all’inguine mentre le sanguisughe si arrampicano lente e sicure sui nostri polpacci. Altre volte dobbiamo fermarci più giorni in un punto solo, a controllare i confini col GPS, a installare fototrappole, a inseguire piste lasciate da zebre e kudu nei pressi di pozze nascoste.

Un giorno ci piantiamo nel mezzo di una pianura nera, traditi dal black soil, una terra alluvionale che con l’acqua diventa impasto colloso e micidiale. Proviamo a chiedere aiuto al villaggio più vicino: arrivano con quattro buoi da aratro, ma non bastano. Scaviamo, costruiamo fossati per drenare l’acqua, infiliamo rami e tronchi sotto le ruote. Siamo esausti, madidi, ma ogni volta che ci liberiamo, ripartiamo. E quando il mezzo è troppo a rischio, continuiamo a piedi. Perché il bush chiama, e io rispondo.

Immagine di Davide Sita

Un’indagine nel silenzio della foresta: il traffico di rosewood

Dopo la prima esplorazione, mi viene affidato un secondo incarico, meno naturalistico ma altrettanto urgente: indagare sul taglio illegale di rosewood, una pianta protetta appartenente al genere Pterocarpus, molto ricercata per arredi di lusso e strumenti musicali.

Il rosewood, localmente chiamato mukwa, forma vere e proprie foreste lungo le rive del fiume Zambesi. La sua esportazione è regolamentata dalla CITES, ma in questa zona, il commercio illegale è fiorente. Intervisto il capo distretto della ZAWA (Zambia Wildlife Authority), visito i punti di raccolta, filmo camion carichi di tronchi enormi e raccolgo informazioni nei villaggi.

Scopro che molte segherie “legali” sono di proprietà cinese, e che il legname viene tagliato di notte da operai locali armati di motoseghe, accette e trattori. Dietro tutto questo c’è una filiera strutturata, invisibile ma potentissima, che trasforma foreste secolari in scarti per recinzioni e travi da costruzione.

Una strage silenziosa. Perché i bracconieri non uccidono solo elefanti. A volte, la vittima è un albero.

Terzo incarico: esplorare la riserva statale

L’ultima parte del mese ci conduce nella riserva statale gestita dal mio capo. Un luogo senza nome, senza mappa, senza sentieri. Un’area dimenticata, che da anni nessuno più controllava.

La vegetazione qui è più fitta, più rumorosa. Gli uccelli sembrano parlarci, le tracce si sovrappongono. Alcune piste sono impraticabili, altre nemmeno esistono più. E allora dobbiamo crearle: a colpi di machete, a forza di ingegno. Ogni tanto ci fermiamo più giorni nello stesso punto: per aggiornare le mappe, scattare foto, aspettare che il terreno si asciughi, che l’acqua defluisca, che la natura ci conceda un passaggio.

Il nostro giovane aiutante ci tiene in vita: ci prepara il riso, mantiene il campo pulito, ci accoglie la sera con il fuoco acceso. Senza di lui, non potremmo fare nulla. In tre, ognuno con il suo ruolo, attraversiamo questo fazzoletto di Africa con rispetto, attenzione, stupore. E una buona dose di testardaggine.

Quando torniamo a Sesheke, il nostro veicolo è un blocco di fango e graffi. Noi anche. Ma siamo pieni: di immagini, di dati, di storie da raccontare.

Sono venuto qui per controllare una riserva. Ne ho esplorate due, e molto di più. Sono venuto per mappare un confine. E mi sono ritrovato nel mezzo di una strage silenziosa. Sono venuto per lavorare. Ma, come ogni volta, è stata l’Africa a lavorare su di me.
E allora scrivo, per ricordarmi chi sono e per portare con me chiunque voglia attraversare le terre vive e ferite dello Zambia almeno con l’immaginazione.