L’11 febbraio, poco prima del tramonto, avevamo vissuto una scena che sembrava uscita da un film: un accerchiamento, una colluttazione, un arresto. Un bracconiere era stato catturato, mentre altri due erano riusciti a fuggire. Era un momento intenso, ma quella sera avevo capito che era solo l’inizio.
Tutto era cominciato alcune ore prima, durante uno dei consueti giri di pattuglia con il capitano della squadra antibracconaggio. Mentre attraversavamo il bush, tra la vegetazione fitta e i sentieri polverosi, qualcosa attirò la nostra attenzione: un piccolo fuoco ormai spento e due legni disposti come giaciglio. Era nascosto con cura, ma abbastanza evidente per chi sa cosa cercare.
Quel segnale era inequivocabile: qualcuno si era accampato lì, qualcuno che non avrebbe dovuto essere nella riserva. L’allarme scattò immediatamente. Fu grazie a quella scoperta che, poche ore dopo, il bracconiere venne individuato, accerchiato e infine arrestato.

Quella sera, alle 19:30, mi trovavo con Luis, il manager della riserva, in una stanza illuminata da una luce fioca, immersi in una discussione che avrebbe cambiato il mio modo di vedere la lotta al bracconaggio. Parlammo a lungo di quell’uomo che avevano appena arrestato, un bracconiere di circa cinquantacinque anni. Luis mi raccontò che spesso queste persone si trovano a scegliere tra il bracconaggio e la miseria, eppure, in quel caso, non era chiaro se l’uomo lavorasse per un’organizzazione o agisse da solo. Non potevamo ancora sapere chi fosse davvero.
Poi, con un mezzo sorriso e un tono serio, Luis mi disse qualcosa che mi colse di sorpresa: “Domani sarai tu ad accompagnarlo alla stazione di polizia a Petauke”. Non potevo crederci. Io, incaricato dalla compagnia di organizzare un progetto turistico legato alla conservazione dell’area, mi sarei trovato a gestire un trasferimento tanto delicato? Mi colpì l’importanza di quel compito, ma sentii anche una certa tensione crescere dentro di me.


Dopo questo confronto, riprendemmo la strada verso Petauke. Quando arrivammo al comando della polizia forestale, gestito dal Dipartimento dei Parchi Nazionali e della Fauna Selvatica (DNPW), l’uomo venne condotto in una piccola stanza. Gli agenti lo fecero sedere sul pavimento e iniziarono a parlargli, prima nella sua lingua e poi in inglese. Fu durante l’interrogatorio che si mise a piangere. Tra le lacrime, rispose alle domande degli ufficiali: disse il suo nome, aggiunse che gli dispiaceva, e fornì poche altre informazioni utili.
Durante la perquisizione, venne scoperta la verità: quei proiettili artigianali non erano pensati per la piccola selvaggina. Il suo obiettivo erano i grandi mammiferi, probabilmente elefanti. Questo dettaglio rendeva la situazione ancora più grave.
Provai a parlargli personalmente, cercando di capire qualcosa in più. Gli chiesi come stesse e perché avesse compiuto un atto tanto vile. Lui alzò lo sguardo per un attimo, giusto il tempo di rispondermi con voce sommessa. Mi disse solo il suo nome e aggiunse, quasi sottovoce: “Mi dispiace”. Poi abbassò di nuovo lo sguardo, chiudendosi in un silenzio che non osai più infrangere.
Alla fine, il bracconiere venne trasferito alla stazione di polizia statale. Io rimasi fuori, immerso nei miei pensieri. Qualche settimana dopo, seppi che era stato condannato a due anni di reclusione.

Quell’esperienza mi ha lasciato più domande che risposte. Due anni di carcere avrebbero davvero fatto la differenza? Oppure tutto sarebbe continuato come prima, con nuove pedine a prendere il posto di quell’uomo?
Questa domanda non riguarda solo il singolo episodio, ma l’intero fenomeno del bracconaggio, che continua a rappresentare una minaccia grave e complessa, specialmente in Zambia. Secondo il Ministero del Turismo zambiano, nel solo Parco Nazionale di Kafue operano tra i 4.000 e i 6.000 bracconieri, una cifra che evidenzia la portata del problema. Dal 2016, considerato un anno nero per la fauna selvatica, il bracconaggio ha decimato fino al 30% degli animali della savana nel Paese.
Questi numeri raccontano una lotta impari, dove non è solo la fauna a subire le conseguenze, ma anche gli equilibri sociali ed economici delle comunità locali. È una guerra silenziosa che non si limita ai confini dello Zambia. Nell’Africa australe, Paesi come la Namibia, il Botswana e lo Zimbabwe affrontano sfide simili: dai rinoceronti abbattuti illegalmente ai pangolini vittime di un commercio sempre più diffuso.
Come mi disse una volta Davide Bomben, esperto di antibracconaggio e amico fidato: “La lotta al bracconaggio non è solo una questione di armi o arresti. È una battaglia contro la disperazione, l’avidità e l’ignoranza. Finché non colpiremo le radici del problema, continueremo a rincorrere un’ombra”.
Le sue parole mi risuonano ancora oggi. Perché questa guerra silenziosa non è solo una battaglia per proteggere la natura, ma una lotta per l’equilibrio, per un futuro in cui uomo e ambiente possano convivere.